
Carriere discontinue: un danno per le pensioni?
Le carriere lavorative discontinue creano carriere pensionistiche discontinue. Quando ho iniziato ad occuparmi di previdenza nel 2008, il tema delle carriere previdenziali discontinue era marginale. Quasi nessun colleghi poneva il problema del proprio destino pensionistico a fronte di una carriera lavorativa discontinua.
Oggi, 10 anni dopo, sono domande frequentissime. I colleghi che si domandano come rimettere insieme i cocci della loro carriera previdenziale sono molti e sempre in aumento.
Possiamo leggerlo come un segnale positivo: è aumentata nel tempo la consapevolezza della necessità di avere un piano di risparmio pensionistico continuo per raggiungere il risultato di una pensione adeguata.
Ma possiamo leggerlo anche, all’opposto, come un segno negativo: aumentano sempre di più le carriere lavorative caratterizzate da discontinuità.
Per discontinuità intendo almeno tre fenomeni.
1
INTERRUZIONI DI CARRIERA.
La presenza di periodi, durante la carriera, in cui le persone interrompono la loro attività professionale per eventi di vita come la malattia o la maternità, oppure semplicemente per un calo dei redditi.
2
DISCONTINUITA’ LONGITUDINALE
Periodi di versamento dei contributi in diverse gestioni che si succedono l’uno all’altro lungo l’arco della vita. Ad esempio, qualche anno in gestione separata Inps, poi qualche anno da libero professionista ENPAP, poi ancora qualche anno da dipendente con versamenti all’AGO Inps.
3
DISCONTINUITA’ ORIZZONTALE
Periodi in cui vengono versati contributi contemporaneamente in casse diverse, perché vengono svolte più tipologie di lavoro. Ad esempio un lavoro dipendente part-time e un’attività libero professionale. Oppure un’attività libero professionale e un dottorato di ricerca oppure un assegno di ricerca. Tutte situazioni che producono due o più linee di contributi versati in contenitori diversi.
Queste tre situazioni creano intanto un problema di ordine e controllo della propria posizione contributiva. Che può sembrare banale, ma in realtà è un problema perché è come se dovessimo gestire il nostro denaro usando svariati conti correnti contemporaneamente, ciascuno con rischi, costi e opportunità diverse. Una carriera frammentata non permette alla persona di avere una visione organica, complessiva e prospettica del proprio futuro pensionistico, si pongono anche altri ordini di problemi.
Un secondo problema è che periodi troppo brevi di contribuzione molto spesso non danno diritto a pensione. I contributi versati vanno letteralmente persi, donati alla collettività e agli equilibri di bilancio. D’altronde il sistema delle pensioni italiane è concepito sul modello Fantozzi: il classico ragioniere che si diploma a 19 anni, entra in azienda a vent’anni come impiegato, e prosegue interrottamente nella stessa azienda per tutta la sua carriera lavorativa fino ad accedere alla pensione.
A questo secondo problema ovviano in modo soltanto parziale gli istituti come la ricongiunzione, la totalizzazione o il cumulo. Ciascuno di essi presenta pregi e difetti, ma soprattutto la presenza di tre istituti diversi (senza considerare eventuali contributi versati all’estero) genera ulteriore frammentazione, perché mette il cittadino non esperto di questioni previdenziali di fronte alla necessità di scegliere sia il meccanismo più adatto e vantaggioso, che il momento in cui compiere la scelta. Tutte decisioni che presentano una complessità tecnica eccessiva per il cittadino comune.
Esiste poi un terzo problema, che genera grande iniquità. Quando una carriera è frammentata in modo longitudinale, ci troviamo di fronte alla presenza di due piani di risparmio della durata, ad esempio, di vent’anni ciascuno. Sul piano finanziario, del rendimento e del rischio non è detto che due periodi di breve durata in due enti previdenziali diversi generino lo stesso risultato di quarant’anni di piano di accumulo.
Infine dobbiamo aggiungere un altro problema ancora, di equità generazionale. La discontinuità delle carriere colpisce i lavoratori più giovani, già pesantemente penalizzati sul piano dell’equità intergenerazionale dall’entrata in vigore del sistema contributivo, che ha prodotto un taglio dell’entità delle pensioni di proporzioni bibliche.
Questi lavoratori, che sul piano costituzionale non hanno nulla di diverso dai lavoratori più anziani se non la sfiga di essere nati in un’epoca diversa, si trovano oggi a dover alimentare con la propria fiscalità le pensioni non coperte da contributi dei lavoratori più anziani.
Inoltre devono sobbarcarsi la costruzione della propria pensione, costruendola mattone per mattone soltanto con i propri versamenti, senza poter contare, almeno al momento, su prospettive di ammortizzatori pensionistici come quelli di cui hanno goduto e stanno godendo i lavoratori più anziani.
SI TRATTA DI PROBLEMI EPOCALI. Purtroppo non ancora giunti a piena maturazione perché ancora non se ne vedono gli effetti. Per cui è facile, per gli attuali decisori politici, nascondere la polvere sotto il tappeto.
Ma il rischio assolutamente reale è che il sistema previdenziale per come lo conosciamo oggi non garantisca la sua funzione sociale di base: quella di salvaguardare la collettività dall’inedia di milioni di cittadini.