Il setting ai tempi di WhatsApp

Il setting ai tempi di WhatsApp

Come è cambiato il lavoro degli psicologi, con l’arrivo si WhatsApp?

Pare banale, ma il problema si pone davvero: l’avvento di nuovi strumenti di comunicazione come WhatsApp (ma pure Messenger,  e meno recentemente gli SMS) impone un ripensamento anche della comunicazione con i nostri clienti/pazienti. Che il problema sia reale che lo dice la nostra esperienza quotidiana, ma anche le discussioni fra colleghi.

Quante volte, senza che vi sia stato alcun accordo a riguardo, un paziente/cliente ci contatta su WhatsApp? nella migliore delle ipotesi si tratta di persone conosciute, che ci chiedono di spostare un appuntamento. Ma in alcuni casi arrivano aggiornamenti di vita quotidiana, magari su situazioni di cui si è parlato in colloquio. In altri, sono contatti da parte di persone sconosciute che chiedono un appuntamento dopo aver trovato il nostro numero di cellulare sul sito dello studio, o sulla pagina FB.

SPOSTIAMO L’APPUNTAMENTO?

Frequentissimo. Questo è in assoluto il motivo più ricorrente per cui i pazienti mi contattano su WhatsApp. La prima volta che mi è successo non ho capito subito di chi si trattava e ho dovuto chiedere chi fosse – complice la sintesi assoluta che questo strumento stimola e un numero di cellulare non salvato. Poi è andata liscia: in qualche modo ho sdoganato WhatsApp come ordinario strumento di comunicazione per cambi di appuntamento. Il motivo è semplice: è comodo anche per me, che altrimenti dovrei armeggiare con il telefono che suona mentre sto facendo altro e avere pronta l’agenda ed una risposta.

Ho fatto questo ragionamento: se da anni accetto gli SMS e la mail – come credo tutti noi, o quasi – per quale motivo non dovrei accettare WhatsApp?

Qualche collega con cui ho parlato, ha opinato che WhatsApp è più informale, e si usa per parlare con gli amici. Il problema è che questa è una valutazione che non è necessariamente condivisa dai pazienti. Per far passare questo labile concetto, dovrei mettermi a discutere in colloquio del mood di WhatsApp, con l’idea di spostare la comunicazione su altri canali. Trovo la questione poco economica sia per me che per il cliente.

MI HA MOLLATO!

Ecco, una volta mi è arrivato questo laconico messaggio: ‘Mi ha mollato’. Uno sfogo, buttato lì a metà giornata di una normale giornata lavorativa, da un uomo con una complicata relazione affettiva che aveva attraversato fasi di conflitto e sofferenza.

Mi sono sorpreso a tirare un sospiro di sollievo, a pensare ‘Finalmente’. Come a dire che la spontaneità e l’immediatezza della comunicazione hanno avuto un seguito istintivo pure in me. Ne ho avuto timore, due secondi dopo: come trattare questo messaggio? ignorarlo? mettersi ad argomentare in qualche centinaio di caratteri? per dire cosa? poi mi si è aperta tutta la complessità della situazione: i suoi figli, le questioni economiche e abitative pendenti su questa relazione e sulla sua eventuale rottura… insomma, facile liquidare WhatsApp come una messaggeria per ragazzini, ma qui mi trovavo alle prese con un uomo nel pieno della maturità, con la sua famiglia, i suoi figli. E un messaggio che – nella sua sintesi estrema e nel presupposto che retroterra di vissuti condivisi in colloquio nel corso di un rapporto terapeutico che durava da alcuni mesi – era l’espressione piena del meccanismo di condensazione che nei sacri testi si racconta essere prerogativa dei sogni, dei lapsus e degli atti mancati.

Mi sono improvvisamente reso conto che la messaggeria istantanea di WhatsApp apre uno squarcio, una finestra sulla vita quotidiana dei nostri pazienti, che gli SMS non avevano mai aperto. Ricevo più frequentemente sfoghi di questo tipo, da quando uso WhatsApp. E quando ti piove addosso una comunicazione di questo tipo, non puoi liquidarla con sufficienza o con spocchia, perché dietro queste tre parole c’è il mondo di una persona che preme ed esubera.

Ma non ho una regola generale per rispondere: utilizzo solo la regola, che mi lascia molto agio, di dare comunque una risposta, dosando modi e tempi in base al grado di sofferenza ed urgenza emozionale che valuto ci sia dietro. Ma credo che il contenuto non possa che essere adattato ad ogni specifica situazione.

POSSO CHIEDERLE UN APPUNTAMENTO?

Meno frequente, ma mi è successo un paio di volte. Confesso che in mancanza di un rapporto pregresso ho trovato molto difficile, nella pratica, rispondere fissando un appuntamento tramite messaggeria. Ho sempre risposto affermativamente, ma rimandato ad un contatto via mail o telefonico.

In una recente conversazione in un gruppo FB di colleghi, si è parlato di questa evenienza ed è emerso il tema della serietà della richiesta, dei ‘confini’ (?), della ‘correttezza’ della persona che ci contatta in questo modo. Per me questi sono argomenti pregiudiziali, pensieri che non faccio: parto da presupposto che per quanto ci appaia maldestro, dietro ogni approccio e richiesta di consulenza da parte di una persona si celi un mondo di vissuti, relazioni, sofferenze che non ho il diritto di liquidare in modo preconcetto solo perché arrivano tramite WhatsApp.

Le persone arrivano come arrivano, questa è la verità. E comunque arrivino, io penso che la vocazione di accoglienza della nostra professione impone di non iniziare subito a dettare le regole del gioco, perché non sappiamo nulla di chi sia quella persona, di quanta sofferenza porti con sé, di quanti rifiuti abbia percepito prima di mandarci un messaggio, di quanta urgenza senta e di quale resistenza abbia superato per scriverci. Penso che chi ci contatta su WhatsApp probabilmente non lo sta facendo d’impulso, e nemmeno per la pigrizia di non fare una telefonata: penso che stia facendo fatica, nel contattarci. O almeno, parto dal principio prudenziale che sia così, e che le persone vadano trattate con delicatezza e presunzione di buona fede.

MULTITASKING

Ecco, questo invece è un bel problema: prima era il telefono. Poi il telefono e il cellulare. Poi solo il cellulare, poi anche gli SMS e le mail. Ora sul mio iPhone posso ricevere contatti da mail, SMS, telefono, Messenger, LinkedIN, WhatsApp. Confesso che – al di là delle questioni di setting – fatico a gestire tutti questi canali di contatto e alcune volte ho perso messaggi da pazienti. In altri casi, ho dimenticato dove cercare per rispondere. Oppure ho risposto due volte, dopo essere stato contattato sia per telefono che via mail.

Non è un problema da poco, sul piano relazionale: può comunicare incuria o disattenzione, e in almeno un caso questo mi è stato rimproverato più volte, nonostante avessi cercato di ricondurre le comunicazioni ad un solo canale. Qualcuno potrebbe dire – forse con troppa facilità – che vanno poste delle regole.

Ma non è sempre una questione di regole. Mi è stato chiaro con una persona molto esuberante sul piano relazionale, risultato di un problema intellettivo riconosciuto e un tema aperto sulla possibilità di ‘educare’ a comportamenti sociali adeguati che aveva creato non pochi problemi in vari contesti. Questa persona mi contattava – anche maldestramente – via SMS, Messenger e WhatsApp senza una regola fissa, di solito dopo avermi cercato telefonicamente più volte. Sempre per motivi apparentemente futili, per eventi del quotidiano. Che però impattavano su un’emotività fragile. Cosa fare? insistere oltremodo per evitare questi approcci? non rispondere? anche qui, oltre un certo limite si pone il problema dell’accettazione della persona e dei comportamenti sintomatici che porta. Mi sono domandato quale senso potesse avere rifiutare questo stile comunicativo, che era in fondo così coerente con il tema di sofferenza alla base del motivo per cui la persona era arrivata da uno psicologo. E così ho deliberatamente rinunciato a pretendere ed aspettarmi il rispetto delle regole. Non ho rinunciato ad enunciarle come principio di adeguatezza nei rapporti, ma mi sono astenuto dall’aspettarmi di poter modellare la vita di questa persone perché ho percepito che questo cliché relazionale si era ripetuto troppe volte. Questo ha comportato anche da parte mia una gestione maldestra dei contatti, perché non ho sempre potuto gestire con puntualità i vari messaggi e le telefonate più o meno casuali fra un colloquio e l’altro. Ha comportato un setting molto impuro, non ritmato dai colloqui settimanali. Ma soprattutto ha comportato la gestione di un controtransfert che mi ha fatto capire molto del mondo relazionale di questa persona, dei rifiuti continui che aveva ricevuto, della sua conseguente sofferenza e del suo approccio sempre sospettoso verso chiunque.

SETTING.

Come si sia trasformato, e come andrà trasformandosi in seguito a tutto questo, secondo me è un tema tutto da esplorare. Con una considerazione che credo non possa non trarsi: la nostra professione lavora sul modo in cui le persone si approcciano al mondo, e dovrebbe vivere nel mondo cogliendone tutta la varietà di manifestazioni. Non siamo chirurghi, che possono e devono pretendere un campo operatorio pulito da ogni contaminazione, perché il nostro lavoro è proprio quello di leggere le contaminazioni e comprendere attraverso il loro impatto il mondo della persona che ci chiede consulenza o psicoterapia.

Questo comporterà inevitabilmente di rimettere in discussione le nostre regole, molto più spesso di quanto avvenuto negli ultimi 100 anni di storia della psicoterapia, perché soltanto negli ultimi 10 anni è radicalmente cambiato lo scenario della comunicazione, della nostra presenza pubblica e delle modalità relazionali che si usano fra le persone.